Bianco stupore (Privé)

È la protagonista indiscussa di questi giorni. Lei, la neve, regina bianca dell’inverno. Così delicata eppure così potente da stravolgere tutto in poco tempo. Città, strade, prati, colline ma anche tempi, ritmi, abitudini e soprattutto predisposizioni umorali e stati d’animo.
Sì, perché quel sottile sipario bianco che lentamente cala sul palcoscenico quotidiano, ridisegna non solo i panorami esteriori ma anche quelli interiori, giocando con i ricordi, i sogni e i timori. Guardando la danza che i cristalli improvvisano nell’aria, verrebbe voglia di fermarli lì, sospesi da terra, in modo che possano conservare intatta la loro naturale leggerezza. Scolpire la neve nell’istante del suo divenire sarebbe anche un modo per fermare il tempo e ritornare idealmente alla stagione dell’infanzia, quando il suo arrivo, soprattutto se inatteso, rappresentava sempre e solo una grande gioia.
Lo stupore è forse l’unico sentimento che un adulto non prova più davanti a una nevicata. La poesia, il gioco e la bellezza restano pressoché muti di fronte ai disagi concreti che la neve, col suo innocente candore, può provocare, soprattutto nelle città. È comprensibile.
E così, tutti presi da problemi pratici, ci si dimentica di quando si era bambini. Quando ci si svegliava la mattina con quel bianco illibato che riempiva tutto di una luce pulita. Accesi dall’impazienza, si correva fuori per toccarla, calpestando con garbo il tappeto immacolato, perché era un peccato violare tanta perfezione. Il silenzio ovattato, rotto solo dal peso delle scarpe sui fiocchi compatti, aggiungeva solennità all’evento, come se tutti intorno si fossero raccolti contemporaneamente in una spontanea preghiera. Era persino bello andare a scuola quando c’era la neve. Tutti a piedi, pochissime auto, solo fiumi bianchi che cancellavano i confini tra strade e marciapiedi in una totale anarchia di viabilità. Nessun problema per i bambini, tanto c’erano i grandi a pensare per loro. Ma che peccato che anche i grandi non fossero contagiati dalla stessa festosa gioia. Dalla stessa impazienza di affondare le mani nel soffice gelo caduto dal cielo per farne palle, pupazzi, per leccarlo, per mangiarlo…
Nel suo bel libro “Il senso di Smilla per la neve”, Peter Høeg raccontava come gli abitanti dell’estremo nord abbiano un’infinità di nomi per definire la neve e il ghiaccio, tante sono le sfumature, le consistenze e le fogge che il manto nevoso assume depositandosi sulle cose. Frazil, grease ice, pancake ice, hiku, hikuaq, puktaaq, ivuniq, maniilaq, apuhiniq, agiuppiniq, killaq… Ecco, questa grande fantasia nell’esprimere qualcosa di apparentemente uniforme è forse un po’ simile a quella di un bambino che, con i suoi occhi curiosi e voraci di vita, coglie nella neve una bellezza infinita, sempre nuova, sempre diversa. Senza paura di avere freddo, di cadere, di bagnarsi, di sporcarsi. Solo con un po’ di paura di crescere, forse, e di dimenticarsi di stupirsi.