Musica, emozioni e ricordi (Privé)

Ricordo che quando ero bambina, ascoltando un certo brano musicale, mi sentivo inondare di una tristezza infinita, lacerante. Quel vecchio brano era “Giochi Proibiti” e l’armonia di quei pochi minuti di nuda chitarra in cui mi abbandonavo al pianto mi evocava delle immagini ben precise: quelle del mio amato cane Teddy che correva felice in soffici prati erbosi, mentre in realtà era da poco scomparso lasciandomi dentro un vuoto immenso.
Perché quel preciso brano mi devastava? Perché proprio quell’armonia e non un’altra? Per una bambina quei pianti sull’onda delle note erano solo l’irrefrenabile ed inconsapevole risposta emotiva a una ferita ancora aperta. Oggi, invece, si sa perché un certo tipo di musica tocca le corde interiori della malinconia infondendo commozione, oppure dell’euforia mettendo voglia di ballare.
Le neuroscienze, infatti, insegnano che gli effetti emotivi della musica sono indotti dalle note e dal ritmo. Gli effetti del ritmo sono piuttosto intuitivi perché dipendono essenzialmente dalla velocità, cioè dal tempo della musica, che si misura in battiti al minuto. Tempi inferiori a 60 battiti al minuto hanno un effetto tranquillizzante, che sotto i 30-40 diventa persino melancolico, tanto da essere normalmente utilizzato per le marce funebri. Al contrario, da 80-90 battiti al minuto in su l’effetto è vivacizzante. La musica da discoteca si colloca infatti dai 120 in su, con una fascia bassa, da 107 a 120, per una disco dance più soft.
Questi valori hanno un legame ancestrale con la nostra natura. L’attività cardiaca umana normale, in veglia a riposo, si aggira fra i 60 e gli 80 battiti per minuto, tipicamente 70-72. Questa è, o dovrebbe essere, la frequenza cardiaca di una neo mamma che tiene abbracciato al petto il suo bambino, in inconsapevole ascolto del cuore materno. Il bambino è naturalmente tranquillizzato da frequenze normali, o ancora più lente, perché gli comunicano che la mamma sta bene, è in pace, o addirittura dorme, e di conseguenza anche lui può abbandonarsi sereno. Frequenze più alte indicano, invece, che la mamma è all’erta, o in ansia, e il bambino reagisce con le stesse emozioni, agitandosi. Musicalmente parlando, questa risposta emotiva alla frequenza di suoni ritmati – in particolare quando gli strumenti musicali evocano i battiti del cuore (come i tamburi, il contrabbasso e il basso elettrico), nasce con noi e ci apparterrà per tutta la vita.
Gli effetti emotivi delle note sono un po’ più complicati. Senza entrare nei tecnicismi della neurofisiologia del suono, è provato che le reazioni emotive alla musica sono di origine in parte culturale e in parte innata. La velocità di vibrazione (frequenza) determina l’acutezza del suono: tanto più veloce la vibrazione, tanto maggiore la frequenza e acuto il suono. La forza della vibrazione (ampiezza) determina invece il volume. Già nell’antichità si sapeva che due o più note diverse suonate insieme, o una dopo l’altra, ci trasmettono maggior piacere (cioè le troviamo più consonanti) quanto più è semplice è il rapporto fra le loro frequenze. Il rapporto più semplice è 3/2, cioè quello fra la nota fondamentale e la quinta, pertanto detto intervallo “di quinta”. La fondamentale e la quinta sono le due note che, se suonate insieme o una dopo l’altra, sentiamo più consonanti (esempi: Do-Sol, Mi-Si, Sol- Re). Il rapporto che si situa secondo nella scala delle consonanze è quello di quarta, 4/3 (Do-Fa, Mi-La, Sol-Do).
Anche chi non è particolarmente pratico di scale musicali può intuire che la maggioranza delle canzoni popolari di successo, quindi più orecchiabili, è costruita proprio sui tre accordi le cui fondamentali stanno fra loro in rapporto di quinta e di quarta (Do, Sol e Fa; Mi, Si e La; La, Mi e Re; ecc.). A questo si aggiunga che le note crescenti suonano allegre, ravvivanti e mettono voglia di ballare, mentre quelle calanti suonano tristi, melanconiche e mettono voglia di piangere. È questo il motivo per cui, nella musica cui siamo oggi abituati, certi accordi hanno effetto rallegrante e altri rattristante: la nota intermedia dell’accordo, quella dell’intervallo di terza, è crescente (“accordo maggiore”) o calante (“accordo minore”) rispetto alla nota che il nostro orecchio inconsciamente sente come “naturale” per quell’accordo, e questo ha effetti psicologici significativi.
Ma perché le note che sono in rapporti di frequenza semplici fra loro risultano più gradevoli di quelle con rapporti complessi? E perché una nota crescente rispetto a una nota “naturale” ha effetto rallegrante, mentre una calante ha effetto deprimente?
In quasi tutte le vibrazioni naturali, alla vibrazione fondamentale che definisce la nota si sovrappongono anche vibrazioni a frequenze più alte, multiple della prima, dette armoniche. In altri termini, la nota fondamentale è sempre accompagnata da altre note più acute, in proporzioni differenti secondo i differenti oggetti che producono i suoni. Sono queste – insieme alla variazione d’ampiezza del suono nel tempo – a dare ad ogni diversa sorgente sonora il suo timbro (o colore) caratteristico, a rendere diverso il suono di una chitarra da quello di un flauto. I suoni che trasmettono istintivamente paura sono rumori prodotti in natura da eventi potenzialmente pericolosi, come terremoti, frane, fulmini o esplosioni. Questi suoni contengono un gran numero di armoniche, note che stanno fra loro in rapporti di frequenza qualsiasi, quindi anche in rapporti molto complessi e disordinati. Probabilmente il nostro sistema nervoso è predisposto a considerare allarmanti e sgradevoli i suoni di questo tipo, mentre per contrasto trova apprezzabili i suoni che stanno fra loro in rapporti semplici, le cui armoniche siano ben caratterizzate, non caotiche. A livello ancestrale, suoni di questo tipo comunicano “nessun pericolo”.
A questa spiegazione se ne aggiunge una seconda. I suoni calanti sono tipicamente emessi da animali sofferenti, malati o moribondi e il degradare del lamento nel rantolo è tipico della situazione agonica. È probabilmente su questo che il nostro sistema nervoso, prima d’imparare a parlare, ha imparato a utilizzare i lamenti per comunicare sofferenza, lamenti che tipicamente hanno una tonalità calante. Per il solito meccanismo del contrario, fonazioni gioiose, eccitate e vivaci hanno tipicamente un andamento crescente. È quindi probabile che gli accordi maggiori e quelli minori abbiano effetti emotivamente opposti in quanto rievocano a livello inconscio le emozioni connesse a questo tipo di comunicazione non verbale, spontanea e involontaria.
Ora, alla luce di tutto ciò, è facile capire perché brani musicali come Giochi Proibiti muovano una profonda malinconia, ancora più intensa se associata a ricordi tristi. Ascoltare per credere.
Quindi è il cervello a rispondere alla grammatica musicale con reazioni emotive, non il cuore, o l’anima, come sarebbe bello credere. In particolare, sono l’amigdala e il sistema limbico a reagire istintivamente ai messaggi impliciti contenuti nella musica. I rapporti fra sistema limbico ed emozioni, emozioni e musica, sono dogmi anche se rappresentano un universo di continua indagine da parte delle neuroscienze, dato che le vie del cervello sono infinite.
Tuttavia, ancora oggi, quando vibro ascoltando un brano musicale, mi piace pensare che le emozioni suscitate da quella melodia appartengano al regno della poesia e della sensibilità, piuttosto che a quello della scienza e della razionalità. In una parola, all’immaterialità.
Dopo tutto, oggi al solo ricordo di me bambina che penso al mio cane perduto ascoltando Giochi Proibiti mi rattristo dolorosamente. La musica ha il potere di ridurre ad uno tutte le malinconie, quelle che ognuno di noi riscopre ogni volta nella sua vita, come se il tempo non fosse passato. Mi domando, quindi, se, a distanza di tanti anni, sia sufficiente rivivere una musica nella mente per accendere l’amigdala e scatenare emozioni tanto prepotenti. Oppure se, nei labirinti oscuri del nostro mondo interiore, scatti una magia più profonda, ancora sconosciuta alle neuroscienze, una magia che tesse il filo invisibile tra musica, emozioni e ricordi …