Sex and the City

Chi ha detto che la filosofia debba discettare solo di concetti elevati e profondi? Ogni cosa, in realtà, merita d’essere discussa, persino una serie televisiva. Poiché è molto più difficile scrivere a proposito di un telefilm, che non commentare Platone.
Questa è l’idea di Susanna Mati, filosofo e insegnante di Estetica, che si destreggia con disinvoltura tra i simboli della mitologia più classica e la mondanità di una commedia americana. In questo saggio di Moretti & Vitali, Sex and the City – la nota fairytale che vede come protagoniste quattro amiche in una New York raffinata, colta e sentimentale – si spoglia d’ogni maschera patinata e mostra la sua nuda anima. Così, nelle mani di Susanna Mati, l’effimero divertissement si traduce in un’eloquente favola postmoderna e postfemminista, i cui fili conduttori sono i miti antichi dell’esistenza e non i capricci di quattro affascinanti quasi quarantenni. Dietro a Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte emergono l’Eros, il Fato, l’Anima, il Tempo, quegli archetipi che appartengono a ogni essere umano, che scatenano a loro volta i grandi dilemmi dell’esistenza: l’amore, l’amicizia, la solitudine, i rapporti con il sesso, con la politica e la religione, la libertà e la responsabilità di scelta. C’è poco da fare: le idee mitologiche non muoiono mai. Diventa facile, allora, intuire il successo della serie televisiva: cosa ci accomuna, nonostante le abissali differenze caratteriali e ambientali, alle quattro esuberanti amiche? Queste donne moderatamente istruite, moderatamente in carriera, moderatamente fiere solitarie; queste donne che non sono assolutamente come gli uomini le vogliono; queste donne che non conoscono la fatica, i lavori di casa, che non spingono mai un carrello della spesa, non fanno la coda in posta, all’anagrafe o in banca; queste donne drogate di shopping e alate di sogni impossibili; queste amiche che si rivelano più forti dell’odiato-amato archetipo maschile, persino nei momenti di disincantata fragilità, così unite tra loro eppure, alla fine, immancabilmente sole, ognuna con la propria evanescente libertà; cos’hanno a che fare queste quattro farfalle colorate con le donne vere? E’ l’eterna ricerca romantica, con le sue sfumature sentimentali ed erotiche ma anche ciniche e comiche, a cucire il pathos irresistibile tra le protagoniste della favola e quelle della vita, che s’incontrano in ogni puntata condividendo sogni e delusioni, speranze e frustrazioni. Il gioco tra i due mondi, quello romatico-ideale e quello cinico-reale, è deliziosamente riassunto persino nella sigla della serie televisiva, in cui una caramellosa Carrie, vestita da vaporosa bambola, viene brutalmente infangata dall’acqua di una pozzanghera al passaggio di un autobus. L’umiliante schizzo evoca un brusco richiamo alla ruvidità dei rapporti umani e, contemporaneamente, suggerisce il tragicomico fallimento delle favole di fronte all’inevitabile realtà. Forse proprio per questo, la quest romantica, che riassume in sé tutti i simboli mitologici dell’esistenza, non può durare in eterno. Persino le quattro eterne fanciulle, alla fine della serie, stanno per diventare qualcos’altro, come se, forse, non fossero mai state davvero farfalle ma solo crisalidi sulla soglia di una metamorfosi senza possibilità di ritorno. Valeva la pena, dunque, sognare e rincorrere a perdifiato ciò che è destinato a sfuggire sempre alla presa? Susanna Mati ne è certa: “Amica che hai tanta voglia di correre, che balli da sola di fronte allo specchio, che t’inventi il meglio perché il meglio esiste … amica cerca l’ago nel pagliaio: essere felici e libere è possibile. E poi succeda quel che deve succedere, tanto nella vita – che dura un lampo – non si fa altro che correre incontro al proprio destino.”

Dopo tutto, è vero: non solo nelle favole come Sex and the City, ma anche nella realtà, ogni crisalide si trasforma sempre, prima o poi, in una bellissima farfalla. Almeno per un giorno.