Le oche di Lorenz e le rose innamorate

Sono cresciuta in una casa con un magnifico giardino. Un piccolo Eden terrestre che, un po’ come Konrad Lorenz per le sue oche, è stato il mio imprinting esistenziale e ha consacrato la mia iniziazione alla vita.

Il fatto d’aver vissuto da sempre a contatto con piante, fiori e animali ha avuto un impatto psicologico decisivo sulla bambina che ero. Credo, infatti, d’aver amato la Natura prima ancora di capire cosa essa fosse, senza distinguerla come un universo esterno da me ma come un’unica dimensione, magica e vitale, con cui interagire e interloquire.
Ricordo ancora che, mentre giocavo con gli insetti in compagnia del mio cane Teddy, mio papà si occupava delle piante. Erano soprattutto le rose la sua passione, rose che accudiva e carezzava come fossero creature umane. Il roseto si estendeva lungo un vialetto a semicerchio sul retro della casa a compiacere, quindi, non lo sguardo anonimo dei passanti ma quello complice della famiglia.
Camminandoci in mezzo, mio papà si soffermava a guardare da vicino le piantine con rapita ammirazione e, ogni tanto, soffiava forte dentro il cuore dei fiori schiusi per spazzar via i maggiolini nascosti tra i petali. Tanta era la dolcezza con cui maneggiava i boccioli profumati, quanto il vigore con cui estirpava le erbacce dalle radici. Mio papà parlava con le sue rose, a volte più che con me, tanto che ne ero scioccamente gelosa.
Per me è sempre stato naturale, dunque, pensare che piante e fiori avessero una specie d’intelligenza, di sensibilità e di capacità di dialogare con quegli esseri umani in grado di ascoltarle. Quando poi, da grande, ho letto di certi esperimenti a prova di ciò, ho sentito una profonda soddisfazione e, in cuor mio, ancora ringrazio mio papà per avermi inconsapevolmente avviato alla spontanea comprensione di un mondo a molti estraneo.
Forse, l’esperimento più curioso di cui ho letto è quello azzardato, negli anni Sessanta, da un certo Cleve Backster. Lui non era né un botanico, né uno scienziato ma lavorava per la polizia segreta americana ed era uno specialista della macchina della verità usata durante gli interrogatori ai presunti colpevoli. Un giorno, mosso da non so quale istinto, l’agente provò ad applicare gli elettrodi del galvanometro, normalmente utilizzato per registrare le emozioni umane, alle foglie di una pianta ornamentale del suo studio, una dracena. Con sua sorpresa, l’ago del poligrafo cominciò a reagire, tracciando sul nastro delle curve dentate molto simili a quelle prodotte durante le registrazioni delle emozioni umane.
Preso da eccitato entusiasmo, Backster ritentò più volte l’esperimento con altre piantine, scoprendo qualcosa di ancor più straordinario. Le piante reagivano anche quando, in loro presenza, venivano gettati dei gamberetti vivi nell’acqua bollente. Non solo! Le registrazioni emotive sembravano dimostrare che le piante non soffrivano solamente alla vista di un’azione violenta ma ne conservavano anche il ricordo. Backster ideò, infatti, un esperimento in cui uno tra sei studenti doveva sradicare e calpestare una piantina ‘vittima’ di fronte a un’altra pianta ‘testimone’. Ebbene, una volta collegata al poligrafo, la pianta testimone reagiva freneticamente solo al passaggio dello studente colpevole, mentre mostrava indifferenza davanti ai cinque innocenti.
Quando avevo letto per la prima volta questa storia, ero felicemente stupita ma soprattutto compiaciuta, perché finalmente la scienza sembrava dar ragione a certe mie fanciullesche fantasie. Così, ho cercato di saperne sempre di più frugando tra i libri e ho scoperto che, prima di Backster, all’inizio del secolo scorso, un fisiologo indiano di nome Jagadir Chandra Bose aveva condotto un’infinità di esperimenti sulle piante, a lungo ridicolizzati dagli scienziati. Il suo obiettivo era quello di dimostrare che ci fosse una similitudine tra certe reazioni animali e quelle vegetali, presupponendo che anche le piante avessero una specie di sistema nervoso attivato dalla linfa. Del resto, se i vegetali respiravano senza polmoni o branchie, se digerivano senza stomaco, se crescevano senza muscoli, perché non avrebbero potuto anche avere sensazioni fisiche e reazioni emotive? Bose restò a lungo screditato dalla scienza occidentale, che solo molto tardi riconobbe ai suoi studi il giusto merito. Io credo che quell’uomo avesse, in realtà, un preciso vantaggio rispetto agli scienziati tradizionali: il fatto d’essere indiano e di poter interpretare il mondo naturale senza i pregiudizi della cultura occidentale. Questo, probabilmente, gli aveva consentito d’avventurarsi in un universo ancora quasi del tutto inesplorato, con lo stupore di un bambino e con l’esperienza di uno studioso, senza escludere né catalogare a priori le infinite manifestazioni dell’ignoto. Bose sembrava aver intuito l’esistenza di un elemento onnipresente che avvolge ogni creatura, o meglio, come lui stesso ha scritto: “Un granello di polvere che freme in un raggio di luce, la vita che pullula in tutto il pianeta, il sole radioso che brilla nel cielo.”
Gli studi di Bose sono stati rivalutati solo molto tempo dopo, prima in Inghilterra poi in tutto il mondo, confortati anche da alcuni scienziati russi, che avevano fotografato un alone attorno alle piante, una specie di energia o di aura vitale diversa da pianta a pianta. E’ provato che ogni essere umano ne sia circondato, perché non pensare, dunque, che anche altre creature ne siano dotate, qualunque cosa essa sia? Persino Gustav Theodor Fechner, medico e fisiologo tedesco del diciannovesimo secolo si era domandato: “Perché dovremmo credere che una pianta sia meno cosciente della sua fame e della sua sete rispetto a un animale?” Con una certa ironia, Fechner amava provocare il suo pubblico, azzardando che non erano state inventate le piante per servire l’uomo di ossigeno ma, al contrario, fosse stato creato l’uomo per fornire le piante di anidride carbonica! In fin dei conti, le sue convinzioni, così come quelle di Bose, evocavano più il pensiero filosofico dei romantici tedeschi, che il rigore degli scienziati ortodossi. Novalis, Hölderlin, Görres e Goethe esprimevano, infatti, in maniera sublime questo sentimento cosmico che abbraccia piante, animali e uomini. E come spesso la storia ha dimostrato, poeti e filosofi si sono avvicinati ad alcune grandi verità esistenziali prima degli scienziati. La “Metamorfosi delle Piante” di Goethe ha, per esempio, anticipato e influenzato molte ricerche ancora attuali nel campo della fitoterapia, ispirando anche Rudolf Steiner che ha accolto quell’interpretazione dinamica dell’essere vegetale sfruttata oggi nell’agricoltura biodinamica.
Ora, tornando al mio giardino d’infanzia, che conservo non solo nella memoria ma anche nella realtà, mi sento davvero privilegiata. Non potrei vivere serenamente senza questo lussureggiante cuscino verde che mi accoglie e mi protegge dalla nuda città. Guardando attraverso le sue fronde, un senso di appartenenza mi pervade e la sua anima si confonde con la mia. Mi sembra un delitto che certe verità restino inosservate, che certe vibrazioni scorrano sotto lo sguardo e scivolino tra le dita, senza lasciar traccia o, peggio, consapevolezza di sé. Io non so se le piante abbiano davvero intelligenza, emozioni o ricordi ma gusto il beneficio del dubbio e il piacere della curiosità nei confronti di un mondo tanto pacifico come quello vegetale, che nulla chiede in cambio, se non rispetto. Del resto, forse, è solo per colpa dei nostri limitati sensi se non sappiamo comprendere un linguaggio tanto diverso dal nostro. Un proverbio indiano dice che i sensi dell’uomo sono come le porte di una città: “Se le porte sono aperte, nella città pulsa la vita; se sono chiuse, dilaga il deserto.” Ecco, quel giardino d’infanzia ha bussato alle mie porte sensoriali e tuttora rappresenta per me uno spazio segreto tra corpo e anima, tra esterno e interno, tra visibile e invisibile. Ora so che le piante possono insegnare molto a chi le sa ascoltare, basta osservare le loro reazioni verso chi le tratta con passione, come se, attraverso la propria esuberanza, volessero esprimere riconoscenza e gioia.
Le rose del mio giardino, quelle con cui mio papà parlava, erano bellissime e, ogni primavera, gettavano i primi turgidi germogli, a salutare il loro consueto appuntamento. Oggi, non ci sono più, né lui né il roseto. Evidentemente, io non ho saputo trasmettere a quelle rose lo stesso affetto che mio padre per esse nutriva, tanto che si son lasciate morire di nostalgia.
Chissà, forse, un giorno qualche poetico scienziato scoprirà che anche i fiori si comportano come le oche innamorate di Lorenz.