Il riparatore di destini

Georges Simenon ha vissuto un’esistenza traboccante d’amore e di passione ma anche di inquietudine e dolore.
Aveva fame di tutto, sin da giovane. Aspirava la vita dalle narici, dalla bocca, da ogni poro, come un moribondo assetato d’eternità. Si nutriva dei barbagli di sole sulle case, del verdeggiare degli alberi, della frescura della pioggia, dei colori dei mercati, del sapore della frutta, delle luci e degli odori delle strade ma, soprattutto, era irresistibilmente attratto dalle persone. Ogni individuo era per lui un microcosmo in cui immergersi per viaggiare alla scoperta di nuovi imprevedibili orizzonti. I volti e i corpi delle donne rappresentavano per lo scrittore l’attrazione più irresistibile, l’accattivante accesso a una galassia seducente e inafferrabile: quella dell’animo femminile.
Gli bastava posare lo sguardo su “quei sederi ondeggianti per provare delle erezioni quasi dolorose. Quante volte ho placato quella fame in una strada buia, dentro un portone, con qualche ragazzina più grande di me … “.
Trascinato violentemente dall’eccitazione, Simenon non ha mai saputo rinunciare all’amore fisico ma nella sua audace esuberanza è sempre stato onesto e coerente, rispettando le pieghe più sensibili dell’animo umano cercando di non ferirne mai la dignità. Tutti i suoi romanzi attingono dalla vita reale, offrendo così uno specchio psicologicamente illuminante non solo dei piaceri della vita ma anche dei risvolti umani più oscuri e dolenti, spesso sepolti sotto cumuli di fugaci lussurie.
Nelle sue “Memorie intime” – il romanzo autobiografico dedicato alla figlia Marie-Jo, suicidatasi a venticinque anni con un colpo di rivoltella al cuore – Simenon confessa questa sua predisposizione ai piaceri dei sensi ma anche la sua condivisione con le infinite sofferenze delle persone conosciute durante la sua errabonda esistenza. E’ stato precoce testimone di così tante vite finite male, sprofondate in tragedia, che un giorno s’è chiesto come mai non ci fosse, per gli individui in difficoltà psicologiche, l’equivalente dei medici che si adoperano per sanare le malattie del corpo. Allora, lo scrittore era molto giovane e non conosceva Freud, che scopri solo più tardi, interessandosi in seguito molto di più a Jung e alle sue teorie. Tuttavia Simenon ha sempre tentato di superare la psicoanalisi, che a suo giudizio spesso non riusciva a spiegare la complessità della natura umana.
Così, Simenon ha cominciato a immaginare una figura sostitutiva dell’analista classico: un personaggio vago e contraddittorio, proprio come l’animo umano, che svolgesse nella società un ruolo particolare e ben preciso. Quello di “riparatore di destini”. Fermare in tempo una ragazza che si vuole gettare da un ponte, consolare un amante deluso che si annega nell’alcol, regalare semplicemente un sorriso a chi non ne ha più dentro di sé. Arrivare nel posto giusto al momento giusto, con passo delicato, prima che la sofferenza spinga definitivamente l’essere umano oltre il baratro del nulla.
Tutto piuttosto vago, riconosceva Simenon, tanto che non osava parlare pubblicamente di questa sua fantasia per non sembrare ridicolo. Così, per mascherare quest’idea tanto bizzarra quanto insistente sotto una veste accettabile, ha deciso di affibbiare al suo Maigret l’espressione di “riparatore di destini”, attribuendo al commissario la personificazione di soccorritore psicologico di anime alla deriva.
“Comprendere e non giudicare”, questa è la frase emblematica che contraddistingue la personalità e la missione intima di Simenon – Maigret. Il commissario, infatti, di fronte alla frequente inconciliabilità tra legge e giustizia, sceglie sempre di agire in maniera che le cose si aggiustino secondo la giustizia umana, cercando di entrare in empatia con gli equilibri invisibili delle persone, quelli più delicati, quelli più veri.
Probabilmente è stata una donna a ispirare questa dimensione psicologica di Simenon. Non una delle diecimila femmine – tante sono le leggendarie avventure attribuite al vorace scrittore – con cui ha condiviso transitorie passioni. Ma una donna conturbante, eccessiva, erotizzante, conosciuta durante il primo pallido matrimonio dello scrittore con Tigy, e destinata a sconvolgere la sua vita. Questa diva dalle trecce nere, dalla figura flessuosa e dalla voce da letto, è Denyse Ouimet, o semplicemente D., come Simenon ama chiamarla nei suoi scritti. Trasgressiva e contraddittoria sin dal loro primissimo incontro, D. diventerà sua seconda moglie e madre della piccola Marie-Jo, dopo un’appassionata quanto travagliata convivenza con Simenon e un rapporto altrettanto morboso con la sconsolata figlia.
Appena conosciuta “credevo di sentirla debole, disarmata, senza punti d’appoggio, lacerata da aspirazioni contraddittorie … Non volevo cambiarla. Ero persuaso che i miei sforzi mirassero a farle scoprire se stessa, la vera D. che si credeva obbligata, come se avesse paura, a indossare via via delle maschere. Avevo ragione? Avevo torto? Ad ogni modo ero sincero.” Inconsapevolmente, travolto da una passione tanto focosa quanto pericolosa, Simenon ha cercato d’essere il riparatore del destino di D., anche se alla fine i destini di entrambi sono stati travolti da un duplice, imprevedibile epilogo: lo squilibrio psichico di D. e il suicidio di Marie-Jo. Mentre il primo era forse intuibile dalle crescenti intemperanze della donna, il secondo ha straziato la mente e il cuore dello scrittore. Di fronte alla propria disperata impotenza nel riparare il destino della persona più amata, Simenon continuerà a far vivere la sua bambina attraverso i ricordi, le confessioni e le tenere parole contenute nelle sue memorie, esorcizzando così la sua sconfitta.
“Avevi un bisogno di un assoluto che il tuo Dad non poteva soddisfare. Ti voglio bene bambina mia e sono felice che tu abbia trovato finalmente la pace.” 
Sono pagine dolorose, queste, eppure in un certo senso salvifiche per lo scrittore. Forse, svuotare la propria vita nei romanzi è uno dei segreti in grado di scolpire i personaggi su carta in persone reali, capaci di sopravvivere alle pagine in cui sono racchiusi, diventando così, insieme ai propri autori, complici protagonisti di vita eterna.
“Gli uomini leggono, perché quasi come il pane, hanno bisogno di finzione” diceva Simenon. E lui che di romanzi ne scrisse a centinaia, di cosa aveva bisogno, che cosa cercava nella scrittura un uomo così famelico di vita vera? Non è forse diventato un inconsapevole riparatore di destini di tutti quei lettori che nei suoi libri si sono immersi, persi e ritrovati? Tutti noi, amanti della letteratura, vorremmo essere dei Simenon e scrivere meravigliosi romanzi, tuttavia anche accontentandoci d’essere modesti lettori riusciamo ad attingere alla stessa fonte emotiva e riflessiva da cui essi nascono. Leggendo, ci incontriamo idealmente a metà strada con l’autore delle storie raccontate, il quale ci porta per mano dentro il suo mondo, accogliendo in esso il nostro, comprendendolo e non giudicandolo, in una comune catarsi.
Probabilmente, in questo senso è superfluo distinguere tra lettura e scrittura, perché entrambe le dimensioni sgorgano da questa istintiva, insaziabile fame di emozioni condivise che stilla da ogni essere umano. E di conseguenza, è superfluo anche distinguere tra finzione e verità, tra personaggi inventati e reali, perché lo spasmodico bisogno di finzione di cui parla Simenon non galleggia in superficie, bensì affonda in una dimensione profonda e radicata: spesso, ci specchiamo nella finzione dei romanzi perché nella vita siamo incapaci di guardare direttamente la verità. Quante potenziali Marie-Jo, quanti padri sconfitti e quanti salvifici Maigret si annidano tra noi?
Forse, ognuno di noi, leggendo o scrivendo, può trovare conforto e dare un senso alla propria incompiutezza, diventando momentaneamente il riparatore del suo stesso destino, come sarebbe piaciuto a Simenon.